A proposito dei miei amori

«Amo correre, è una cosa che puoi fare contando sulle tue sole forze. Sui tuoi piedi e sul coraggio dei tuoi polmoni.»

Jesse Owens

giovedì 6 agosto 2015

L'ultima volta


Mi capita di avere voglia di scrivere e allo stesso tempo di non averne voglia. Diciamo che che mi viene voglia di esprimere in maniera ordinata i mille pensieri e sentimenti che si affollano, ma lo sforzo che mi si prospetta mi pare così arduo che preferisco a occupare la mente con numeri (ripetizioni) e dolore fisico (isometria) per non lasciarla vagare in spazi meno conosciuti e verso verità poco piacevoli.
Purtroppo in questi giorni la realtà, per lungo tempo sepolta sotto cumuli di aerei, pazienti, famiglia, sport e convivi, è riuscita a scavarsi una via d'uscita dal sepolcro che le avevo costruito. Si è alzata e mi sta prendendo a pugni in faccia. Se n'è uscita strisciando, fingendosi tramortita e travestendosi da “Ultima Volta”.
Quando sei bambino o ragazzo la vita è piena di “prime volte” che uno affronta con entusiasmo o paura o tutte e due. Poi la vita ti insegna che le “ultime volte”, se non ci stai attento, ti scivolano dalle mani. Se solo avessi saputo che era l'ultima volta che vedevo quella persona... se solo avessi saputo che quella era la mia ultima maratona... se solo avessi immaginato che non avrei mai più rivisto quel posto. E quando hai imparato ad assaporare quelle che sai essere le tue “ultime volte” ti rendi conto di essere cresciuto. Anzi, invecchiato. E man mano che invecchi ci saranno sempre più “ultime volte” e sempre meno “prime volte”.
La prossima è la settimana delle ultime volte. L'ultima settimana a Tirana, l'ultimo volo settimanale, l'ultima serata con gli amici, l'ultima incazzatura con i colleghi, l'ultima analisi delle resistenze batteriche, l'ultimo protocollo, l'ultima seduta in quella piccola palestra, l'ultimo saluto a tantissime persone che resteranno qui, l'ultima settimana lontano dalla mia famiglia.
La realtà, travestita da “Ultima Volta”, ha mostrato il suo volto vero: il fallimento. Non quello professionale. No. Qui sto bene, sono stimolato, conosciuto, stimato. Qualcuno anche mi odia sinceramente. Sono vivo.
Il fallimento è il rientro in Italia, la conclusione di un'esperienza all'estero che, nei miei desideri, doveva essere il trampolino, il salto più difficile, verso un futuro lontano dalla sanità italiana e dall'italica mediocrità, dalle logiche premianti sempre il più anziano, dalla supponenza che comunque “siamo uno dei migliori Sistemi Sanitari al mondo” e con questo sediamoci sul nostro grasso culo e non facciamo nulla di serio per migliorare. 
Ne avevo e ne ho ancora i coglioni strapieni dei colleghi ignoranti ed incapaci che affollano gli ospedali e gli ambulatori, pagati di più dei giovani medici solo perché hanno maturato “l'anzianità”. Questi sono gli sprechi negli ospedali: continuare a pagare gente inutile o dannosa. Ma diciamolo una buona volta che il re è nudo: per rendere il sistema più efficiente dobbiamo avere dei medici formati e molti, moltissimi non lo sono. La loro insicurezza o abitudine a lavorare in modo autoreferenziale e senza alcun tipo di serio aggiornamento o almeno di ripasso delle basilari nozioni di medicina sono fonte di richieste inappropriate e di sprechi di risorse enormi.
Conosco colleghi assolutamente inutili, che hanno parassitato per anni il sistema e che dopo eventi “apparentemente miracolosi” come l'assegnazione di un primariato ad un collega più giovane (se non altro per manifesta incapacità del vecchio) hanno passato il resto delle giornate di lavoro imboscati in un ambulatorio a seminar zizzania e rubare 4000 euro al mese (ovviamente beneficiati di un ulteriore surplus economico a scopo risarcitorio, poveri).
A Tirana ho commesso errori, tanti errori, ma nella vita non ci sono i trial randomizzati e controllati che ti dicono come sarebbe meglio fare perché qualcuno ci è già passato per quella esperienza, per quel paese, per quel travaglio umano che è spostare una intera famiglia. E adesso mi trovo costretto a fare un passo indietro, un passo che vivo come un ritorno alla famosa minestra riscaldata, una sconfitta, una ricaduta in un sistema fatto da e per i mediocri. Se proponi qualcosa di nuovo disturbi lo status quo, nel quale molti hanno trovato una nicchia per farsi gli affari propri. Tutto deve rimanere così, perché così si è sempre fatto. Tutti si lamentano ma nessuno fa realmente qualcosa per sollevarsi dalla merda. La baracca va avanti sulla pelle dei volenterosi e dei sognatori, quelli che pensano che regalare 200-300 ore di straordinario all'anno all'azienda sia un atto dovuto ai pazienti, quelli che pensano che ci si debba accontentare di 17 euro l'ora in un'azienda che, in caso di contenzioso con il paziente, è capace di denunciare te invece di tutelarti con un'assicurazione. E i giovani. Magari molti sono preparati, studiosi, conoscono le linee guida e vanno a tutti i corsi e congressi, leggono le riviste scientifiche. Hanno ancora il sacro fuoco nelle vene. Ma dopo un po' di anni cominciano a chiedersi: ma perché farsi il culo ogni giorno se quel vecchio fannullone lavora un terzo e guadagna il 30% in più solo perché è nel sistema da 30 anni? Pochi hanno il coraggio e la voglia di provare a cambiare le cose e ancora meno quello di prendere ed andarsene da un mondo che è diventato la tomba di ogni ambizione, professionale ed economica. Che depressione, che tristezza, che fatica, che delusione.
Quando sono uscito dall'ospedale pubblico il 19 gennaio 2013 ho osato sperare che fosse l'ultima volta, l'ultimo timbro d'uscita, l'ultima volta che scendevo quelle scale.
Da settembre torno da dove sono venuto, più deluso e disilluso di prima, ma anche incattivito e affamato. Sarà dura. Per tutti.

giovedì 11 dicembre 2014

Pettorale o pettorali?


Scrivo su un foglio di NeoOffice, perché sono troppo pippa per crackare l'originale e installarlo nel mio MacBook, comprato da uno studente di scuola superiore smanettone e un po' nerd qualche anno fa e che non mi ha ancora dato un problema che sia uno.
Scrivo offline perché il mio abbonamento ad internet è scaduto e non riesco ad andare a pagare la quota perché l'ufficio è aperto dalle 9 alle 17 e non esiste alcuna alternativa rispetto al presentarsi allo sportello soldi alla mano. Anche questa è Albania.
Scrivo dal mio letto, come facevo poco meno di 2 anni fa, quando la mia esperienza qui era appena cominciata. Da solo, come allora. 
In due anni sono cambiate molte cose. Non quelle importanti, però. I maligni appassionati di pettegolezzi possono anche fermarsi alle prossime due righe dove scrivo che non mi sono trovato un'amante albanese, non vado per locali a donne e con mia moglie va ancora alla grande, anche se non è sempre stato così.
Ai veri affezionati del blog, quelli che ogni tanto sono passati di qui, quelli che un po' di nostalgia ce l'hanno avuta (pur riuscendo a sopravvivere ugualmente felici), a quelli che, alla fine, qui si sentivano un po' a casa, ho un po' di cose da raccontare.
Mi conosco abbastanza bene per non illudermi che questo sia un nuovo inizio. In poche cose ho avuto costanza nella mia vita. Una di queste è la corsa, ma le dita di una mano sono già troppe per enumerarle. Il blog certamente non fa parte del gruppo.
Vorrei raccontarvi della mia nuova vita da runner salutista, ma non esiste, o quasi. Però abbiate pazienza, ve ne parlo tra un po'. Quindi sì, esiste. O almeno, faccio di tutto perché esista. Vorrei raccontarvi che, dopo che il mio Cardiologo mi ha concesso il certificato di idoneità all'attività sportiva agonistica e raccomandato di gareggiare a 140 bpm (non rendendosi conto che i due termini, "gareggiare" e "140 bpm", nella mia testa non potevano che elidersi a vicenda), ho ritrovato il gusto della corsa e dell'incontro con molti podisti nelle gare della domenica. Ed invece no. Pettorali non ne ho più indossati. Niente più sveglie alle 4.40 per sedute di allenamento mattutino. Poche corse al lago, divenutomi odioso per la continua derisione di cui ero oggetto. Un paio di volte ho reagito ed ho capito che non conviene.
Sono una vittima del cronometro. Per me la corsa era sacrificio finalizzato a conseguire un risultato cronometrico. Immaturo. Sì.
Ma non abbastanza per non essere capace di guardarmi dentro e capire che ciò che mi manca è la sfida. Tutto sta nel trovarne una nuova, che però non può andare slegata dal mio gusto per la forma fisica. Qualcuno mi ha proposto di dedicarmi alla cucina, oppure a suonare uno strumento, ma nessuno di questi hobby consiste in attività che mantengono il fisico in uno stato di forma accettabile. A meno che non usi un pianoforte con tasti larghi un metro e quindi per suonare la canzone della pasta Barilla devi farti l'equivalente di un mezzo giro di pista. Andante, con brio.
Stante che la bicicletta a Tirana è il mezzo che con maggior sicurezza ti conduce in ortopedia e che non ho mai praticato il nuoto a livello tale da poterlo considerare attività sportiva, ho ripiegato sulla palestra (un minuto da casa a piedi, 28 euro abbonamento mensile, 4 ingressi a settimana, anche questo è Albania). Dopo poche settimane ho cominciato a notare dei cambiamenti nel mio corpo. Delle rotondità “di pregio” se vogliamo dire così, che in qualche modo mi hanno fatto dimenticare i miei fianchi non più concavi (diciamocelo, quando corri 60-70 o anche 100 km alla settimana per anni, puoi anche fare il porco a tavola che comunque i pantaloni ti cadono sempre, ma appena smetti, maledici quella volta che hai preso il 48 al posto del 50). Viene da sé che, partendo da una bassa percentuale di massa grassa e da muscoli della parte alta del corpo poco sviluppati, piccoli risultati saltano subito all'occhio. Ecco allora che nasce una nuova sfida: ottenere un corpo armonico, esteticamente soddisfacente. Il vantaggio è che a tal fine non è necessario spaccarsi di pesi (cosa che non posso fare, al pari della corsa competitiva) e nel frattempo è indispensabile mantenere bassa la massa grassa con l'attività aerobica. Il mio nuovo obiettivo mi da la forza di allenarmi in palestra 4 volte alla settimana strutturando l'allenamento in una parte aerobica (almeno 10 km di corsa) ed una parte dedicata alla cura di diversi gruppi muscolari. La domenica, quando possibile, faccio ritorno alle mie origini di podista: le marce FIASP. Qui ho la possibilità di percorrere 13-15 km (ora non sarei in grado di correre di più senza poi avere necessità di due stampelle per i giorni successivi, attrezzi che mi sarebbero di non poco impiccio al controllo di sicurezza del lunedì mattina, in aeroporto) totalizzando, nelle settimane migliori, circa 50 km (cosa che è più un'utopia che una realtà, visto che spesso 1 o 2 allenamenti alla settiman saltano per cause lavorative o, raramente, sociali). Ma della realtà poco mi importa. Essa non è altro che la combinazione della mia forza di volontà e degli eventi che ad essa si oppongono. E la prima l'ho ritrovata.
Ecco, da domenica mi ronzava in testa di riprendere il blog (grazie amico omonimo incontrato a Starazano) e cose da dire ne avrei tante. Avrei potuto dar loro un ordine, oppure enunciare i temi per poi esporli nei post successivi. Ed invece, come al solito, ho lasciato correre i pensieri (almeno loro possono farlo senza limiti di bpm), anzi le dita sulla tastiera. Non sono il tipo che mette i post in una cartella e poi li legge, li corregge, li rilegge e poi, quando sono "perfetti" li pubblica. Io non li rumino. Li vomito. E mi piacerebbe anche dare una direzione nuova al blog (un nuovo tema? Libri letti? Medicina? Cucina balcanica?) ma lo so che non sarò in grado di farlo. Del resto qui dentro ci ho messo la mia vita, fatta soprattutto di corsa, almeno fino ad un anno fa. E continuerò a farlo, con i nuovi equilibri che la mia vita mi ha imposto, inevitabilmente.
Forse perderò qualcuno dei miei (pochi) lettori e qualcuno lo guadagnerò (anche meno) ma a dire il vero è un bel po' che non mi interesso a quanti leggono. 
Senza offesa per nessuno, io scrivo perché e quando mi piace farlo e poco mi importa (poco eh, non ho detto “niente”) se pochi leggono e nessuno commenta. In questo non ho bisogno né di obiettivi, né di sfide. 
Peccato solo che a battere tasti si consumano, ad essere ottimisti, le calorie di un Pavesino.

mercoledì 19 marzo 2014

Questione di numeri

"Stefano, ascoltami, si può fare una vita piena di soddisfazione anche correndo la mezza in 1h40 a fc 130-140 in beta e godersi per decenni la famiglia il lavoro l'Albania o quel che vuoi tu... ascoltami"

Sembra una frase piena di verità scontate, ma, cari runner, metteteci il vostro nome al posto del mio e provate a sentire cosa vi dice il cuore. Se poi a dirvela è il vostro Cardiologo, mi sembra che per molti di voi potrebbe suonare come una condanna a morte, quanto meno a quella sportiva.

In passato molte volte mi sono interrogato su quale fosse il vero stimolo al mio correre e troppo spesso mi sono mentito dicendomi che era soprattutto l'amore per questo sport. Era invece, prima di ogni altra cosa, una sfida ai miei limiti, un continuo tentativo di ridurre quel numeretto al traguardo, un rincorrere un miglioramento che, lo sappiamo tutti, prima o dopo sarebbe inesorabilmente finito. Motivazione psicologicamente poco sana, che nasconde certamente insicurezza ed il bisogno di trovare il proprio valore in un risultato, che però mi ha permesso di uscire dalle coperte quasi sempre al buio, spesso al freddo, lottando contro il sonno, i cani, le gambe legnose.

I NUMERI.
Ma quali sono questi portentosi numeri che hanno mosso la mia vita negli ultimi 7 anni? 3.03 il primo, 1.23 il secondo. Numeri di nessun valore per chi non corre, e di scarsissimo valore oggettivo anche per chi corre. Ma alle 5 del mattino facevano la differenza. Visti da fuori però, che gran poca cosa sembrano adesso.

EXTRASISTOLI.
Il 2014 doveva essere l'anno del primo assalto alle 3 ore. Programma: almeno 3 mezze sull'ora e ventidue e poi Valencia a 4'20''. Prima tappa: mezza di Ferrara, 16 marzo 2014. Iscritto, albergo prenotato per 4, ripetute all'alba sognando di tagliare il traguardo con Leonardo davanti al castello. Dopo 2 settimane di preparazione con condizione in netto miglioramento il cuore inciampa, quattro-cinque volte al minuto. Sono extrasistoli, lo so, è il mio mestiere. Passano uno, due, dieci giorni e il disturbo non peggiora, ma neanche migliora. A tre settimane dalla gara sospendo gli allenamenti. A tre giorni dalla sospensione il mio cuore torna silenzioso come sempre.

IL POST GARA
A Ferrara non voglio rinunciare. E' l'occasione per stare con i miei amici e la mia famiglia. Nessun rimpianto per non poter correre, solo la gioia di vedere gli amici arrivare al traguardo, chi deluso, chi vincente, e la gioia di stare ore a bordo strada ad incitare tutti, con Leonardo. Con le gare mi sembra di avere già chiuso. L'ho detto, è il mio mestiere.
Lunedì sera mi aspetta Andrea in ambulatorio.

LUNEDI'.
Andrea di Lenarda è il più grande esperto di miocardiopatia dilatativa, la malattia di mia mamma, in Europa (e forse nel mondo). Andate su PubMed e mettete il suo nome. 115 articoli su riviste internazionali mettono soggezione anche ai Colleghi. Gli rubo novanta minuti di visita, ben più di una mezza, nel suo studio dove fanno bella mostra di sé alcune fotografie formato maxi. In una di queste Andrea taglia il traguardo a NY, in un'altra a Venezia. Mi dice che devo calmarmi. Niente più maratona. Niente più gare. Il mio cuore sta bene, ma non si sa tutto sull'andamento di questa malattia e scommettere sulla tenuta del muscoletto che sta tra i polmoni sarebbe una roulette russa.

MARTEDI'.
Di nuovo a Tirana. Sta per calare la sera. Dopo 3 settimane rimetto le scarpette e mi avvio al lago. Mi metto a velocità confortevole. Dopo 5 chilometri mi fermo. Prendo il polso: 132. Altro giro. In chiusura mi permetto una sgasata di 150 metri, giusto per sentire l'aria sulla faccia.
E' una bella serata, è una bella corsa, è una bella vita.
E' una nuova serata, è una nuova corsa,  è una nuova vita.

SMS stamattina:
Turco: ieri corsi 12 k tenendo 135 bpm. Sto diventando bravo.
Andrea: ci hai messo il tuo tempo, meglio tardi che mai.

Alla fine è sempre e solo questione di numeri.


sabato 30 novembre 2013

Gita sociale

Non ricordo nemmeno a quando risaliva l'ultima "gita in pulman". Forse Roma allo sciopero degli specializzandi, nel 1800... che poi è l'unico mezzo di trasporto "su ruote" che non si associa all'ansia per la guida altrui.
Dopo 1 anno di digiuno dalle gare, a Francoforte mi sono ripromesso di sfruttare i rientri a casa per indossare un pettorale e per vedere le persone a cui tengo di più.
La prima occasione è la mezza di Padenghe sul Garda alla quale arrivo con un folto gruppo dell'Atletica Mottense capeggiato da Matteo, impeccabile organizzatore, le cui doti di capogruppo erano già evidenti nell'adolescenza.
Il gruppo è folkloristico e mantiene il termine "atletica" nel nome anche se dei 50 presenti solo 13 si cimenteranno nella gara di 21 chilometri. Degli altri, una parte parteciperà alle due non-competitive di contorno, l'altra farà da supporto logistico e nutrizionale (90 uova lesse, mortazza e salame a vagoni, svariate bozze di rosso e frizzantino...).
Sabato giornata infame. La pioggia non ha mai smesso di cadere. A Desenzano ci rifugiamo in un localino chic dove ci vengono serviti due calici di Franciacorta a 6.50 euro l'uno (esticazzi!). La sera, dopo la cena, si svolge il rituale, magistralmente presieduto da Pasquale e Matteo, della consegna dei pettorali. La sala si trasforma in una bisca clandestina quando si aprono le scommesse sui piazzamenti. Io vengo considerato anche se non facente parte della Società e dato, giustamente, al secondo posto. Alla vigilia dichiaro un 1.25 (finirò in 1.25.06, svizzero).
La mattina di domenica è coperto ma non piove. Allo sparo perdo subito di vista Michele, il cavallo più quotato (2.59 a Venezia 1 mese fa), e non lo rivedrò più. Chiuderà con più di 2 minuti di vantaggio. Divario incolmabile, adesso.
Fino al km 12 il percorso è scorrevole con molti tratti in discesa. Impossibile impostare un'andatura regolare, bisogna assecondare le gambe. Quando cominciano i falsopiani e gli strappi il gruppetto di cui faccio parte si sfalda. Qualcuno se ne va ma i più perdono terreno, segno che non sono stato il più incosciente. Tenere i 4 al km mi è impossibile e percorro il km più lento in 4'30''. Sto facendo una faticaccia che erano 18 mesi ma non mollo. Gli ultimi 2 km sono in discesa e, pur lasciando andare le gambe, non recupero posizioni. Chiudo in buona spinta, facilitato anche dalla lieve discesa, in 1.25.15'' ufficiale e solo allora mi accorgo che il terzo dell'Atletica Mottense mi arriva 40'' dietro. Immagino che se mi avesse riconosciuto, sarebbe stata una bella lotta. Matteo chiude con un bel 1.28, qualche secondo  oltre il PB, ma a mio parere il percorso penalizza di circa 1' rispetto ad una gara pianeggiante.
Il ritorno mi regala un pisolino in prima fila ed un paio di chicche da parte di un gruppetto che, in una fase di brain storming geografico, arriva a concludere che Rossano Calabro si trova vicino a Bari, in Sicilia.
1.25 è un buon punto di partenza per un anno di ritorno alle mezze con l'obiettivo dichiarato di avvicinare l'ora e 22 e zerozero, ma anche qualcosa in meno.
Lunedì è tempo di rientrare a Tirana. In aeroporto vengo informato con un sorriso che la compagnia aerea che mi doveva portare in Albania è fallita. Il viaggio è rimandato di 24 ore. Tutti gli amici a cui racconto il fatto reagiscono con incredulità e stupore. Solo uno reagisce con un sorriso amaro, e la cosa mi preoccupa: è lo Stewart Alitalia, Stefano di Milano che abbassa gli occhi e dice "Chissà quando toccherà anche a noi". A lui una menzione particolare. Per il solo fatto di essere in volo con due bambini ci ha trattati come se fossimo la famiglia Obama. Queste sono le persone che fanno bene alle Aziende Italiane, non i manager ladroni che, dopo aver lasciato un buco più grande di quello che hanno trovato, se ne vanno con una "buonuscita" milionaria ed un altro posto assicurato, mentre non sarebbero nemmeno in grado di organizzare un gita sociale.

venerdì 15 novembre 2013

887

Può essere ma anche no, che correva l'anno 1992. A 17 anni lavorare a 30 chilometri da casa mi permetteva di tornare al mio paese una due volte al mese.
Che da gennaio di quest'anno ad una distanza 40 volte superiore tornavo più spesso.
Autobus di linea ce n'erano pochi, a fine luglio, e quel giorno avevo perso quello buono. E per la prima volta ho provato a mettere fuori il pollice e vedere quello che succedeva. E non ci è voluto tanto che un Golf grigia si fermasse e tre giovani mi caricassero sul sedile posteriore. Certo, poteva andare meglio, ma tutto sommato anche peggio.
Quel viaggio mi è rimasto stampato nella mente. Un po' perché l'autista si credeva il re del Mugello, un po' perché, per non fare troppo la figura dello sfigato, trangugiavo birra da una bottiglia che continuavano a far girare e che gentilmente mi porgevano (e dai, Stè, passala). In quel viaggio non poteva mancare lo stereo a palla ed i finestrini abbassati. Dalle casse uscivano brani che non avevo mai sentito, ma che dovevano essere il tormentone dell'estate, soprattutto quella che diceva "non me la menare, non capisco cosa vuoi...". Timidamente sono riuscito a desumere trattarsi di un gruppo il cui nome era costituito da dei numeri che, a causa della necessità di organizzarmi per una telefonata da una cabina e dello sforzo per inventarmi un paio di balle per non far insospettire mia mamma circa il mio mezzo di trasporto, si sono irrimediabilmente cancellati dalla mia mente annebbiata.
Poi è arrivato agosto con le sue 330 ore di lavoro e le albe al mare, e la mia prima "nave scuola" (benedetta lei) e i sensi di colpa e i drammi di una fidanzatina tradita che quando sono tornato a casa stava già con un altro (giustamente) e tante cose.
A settembre nella mia testa erano rimasti gli 887, 4 in più del dovuto, ma per sempre sarebbero rimasti legati a quell'estate di nuova nascita, di nuove esperienze.
Da allora sono passate molte estati diverse, le "stagioni" al mare non erano più un periodo di isolamento perché gli amici avevano le macchine e la domenica qualche ora al mare la facevamo insieme. E c'era sempre Luca Flaborea che portava lo stereo con cinquanta batterie di riserva e un po' di 883 c'era sempre.
Ancora oggi, riascoltando la voce di Max Pezzali, il cuore torna a quelle estati, alla cumpa dell'oratorio, all'odore del forno delle pizze o della macchina del caffè, al vento umido della spiaggia di notte, al rumore della strada sotto l'appartamento di Bibione.
Ancora oggi su Grooveshark cerco gli album degli 883 e me li canto e dentro si muove qualcosa che, voglia o no, nessun altra musica muove nello stesso  modo.

Che anni , quegli anni