Mi
capita di avere voglia di scrivere e allo stesso tempo di non averne
voglia. Diciamo che che mi viene voglia di esprimere in maniera
ordinata i mille pensieri e sentimenti che si affollano, ma lo
sforzo che mi si prospetta mi pare così arduo che preferisco a
occupare la mente con numeri (ripetizioni) e dolore fisico
(isometria) per non lasciarla vagare in spazi meno conosciuti e verso
verità poco piacevoli.
Purtroppo
in questi giorni la realtà, per lungo tempo sepolta sotto cumuli di
aerei, pazienti, famiglia, sport e convivi, è riuscita a scavarsi
una via d'uscita dal sepolcro che le avevo costruito. Si è alzata e
mi sta prendendo a pugni in faccia. Se n'è uscita strisciando,
fingendosi tramortita e travestendosi da “Ultima Volta”.
Quando
sei bambino o ragazzo la vita è piena di “prime volte” che uno
affronta con entusiasmo o paura o tutte e due. Poi la vita ti insegna
che le “ultime volte”, se non ci stai attento, ti scivolano dalle
mani. Se solo avessi saputo che era l'ultima volta che vedevo quella
persona... se solo avessi saputo che quella era la mia ultima
maratona... se solo avessi immaginato che non avrei mai più rivisto
quel posto. E quando hai imparato ad assaporare quelle che sai essere
le tue “ultime volte” ti rendi conto di essere cresciuto. Anzi,
invecchiato. E man mano che invecchi ci saranno sempre più “ultime
volte” e sempre meno “prime volte”.
La
prossima è la settimana delle ultime volte. L'ultima settimana a
Tirana, l'ultimo volo settimanale, l'ultima serata con gli amici,
l'ultima incazzatura con i colleghi, l'ultima analisi delle
resistenze batteriche, l'ultimo protocollo, l'ultima seduta in quella
piccola palestra, l'ultimo saluto a tantissime persone che resteranno
qui, l'ultima settimana lontano dalla mia famiglia.
La
realtà, travestita da “Ultima Volta”, ha mostrato il suo volto
vero: il fallimento. Non quello professionale. No. Qui sto bene, sono
stimolato, conosciuto, stimato. Qualcuno anche mi odia sinceramente.
Sono vivo.
Il
fallimento è il rientro in Italia, la conclusione di un'esperienza
all'estero che, nei miei desideri, doveva essere il trampolino, il
salto più difficile, verso un futuro lontano dalla sanità italiana
e dall'italica mediocrità, dalle logiche premianti sempre il più
anziano, dalla supponenza che comunque “siamo uno dei migliori
Sistemi Sanitari al mondo” e con questo sediamoci sul nostro grasso
culo e non facciamo nulla di serio per migliorare.
Ne avevo e ne ho
ancora i coglioni strapieni dei colleghi ignoranti ed incapaci che
affollano gli ospedali e gli ambulatori, pagati di più dei giovani
medici solo perché hanno maturato “l'anzianità”. Questi sono
gli sprechi negli ospedali: continuare a pagare gente inutile o
dannosa. Ma diciamolo una buona volta che il re è nudo: per rendere
il sistema più efficiente dobbiamo avere dei medici formati e molti,
moltissimi non lo sono. La loro insicurezza o abitudine a lavorare in
modo autoreferenziale e senza alcun tipo di serio aggiornamento o
almeno di ripasso delle basilari nozioni di medicina sono fonte di
richieste inappropriate e di sprechi di risorse enormi.
Conosco
colleghi assolutamente inutili, che hanno parassitato per anni il
sistema e che dopo eventi “apparentemente miracolosi” come
l'assegnazione di un primariato ad un collega più giovane (se non
altro per manifesta incapacità del vecchio) hanno passato il resto
delle giornate di lavoro imboscati in un ambulatorio a seminar
zizzania e rubare 4000 euro al mese (ovviamente beneficiati di un
ulteriore surplus economico a scopo risarcitorio, poveri).
A Tirana ho
commesso errori, tanti errori, ma nella vita non ci sono i trial
randomizzati e controllati che ti dicono come sarebbe meglio fare
perché qualcuno ci è già passato per quella esperienza, per quel
paese, per quel travaglio umano che è spostare una intera famiglia.
E adesso mi trovo costretto a fare un passo indietro, un passo che
vivo come un ritorno alla famosa minestra riscaldata, una sconfitta,
una ricaduta in un sistema fatto da e per i mediocri. Se proponi qualcosa di
nuovo disturbi lo status quo, nel quale molti hanno trovato una
nicchia per farsi gli affari propri. Tutto deve rimanere così,
perché così si è sempre fatto. Tutti si lamentano ma nessuno fa
realmente qualcosa per sollevarsi dalla merda. La baracca va avanti
sulla pelle dei volenterosi e dei sognatori, quelli che pensano che
regalare 200-300 ore di straordinario all'anno all'azienda sia un
atto dovuto ai pazienti, quelli che pensano che ci si debba
accontentare di 17 euro l'ora in un'azienda che, in caso di
contenzioso con il paziente, è capace di denunciare te invece di
tutelarti con un'assicurazione. E i giovani. Magari molti sono
preparati, studiosi, conoscono le linee guida e vanno a tutti i corsi
e congressi, leggono le riviste scientifiche. Hanno ancora il sacro
fuoco nelle vene. Ma dopo un po' di anni cominciano a chiedersi: ma
perché farsi il culo ogni giorno se quel vecchio fannullone lavora
un terzo e guadagna il 30% in più solo perché è nel sistema da 30
anni? Pochi hanno il coraggio e la voglia di provare a cambiare le
cose e ancora meno quello di prendere ed andarsene da un mondo che è
diventato la tomba di ogni ambizione, professionale ed economica. Che
depressione, che tristezza, che fatica, che delusione.
Quando
sono uscito dall'ospedale pubblico il 19 gennaio 2013 ho osato
sperare che fosse l'ultima volta, l'ultimo timbro d'uscita, l'ultima
volta che scendevo quelle scale.
Da
settembre torno da dove sono venuto, più deluso e disilluso di
prima, ma anche incattivito e affamato. Sarà dura. Per tutti.